
C’è proprio da dirlo: all’Abruzzo non manca proprio nulla. Mare, montagna, tradizioni millenarie, ottimo cibo e ottimi vini. Tutto questo pare non bastare però perché negli ultimi anni c’è sempre più fermento intorno alla riscoperta e valorizzazione di vecchi vitigni finiti un po’ nel dimenticatoio o, come piace pensare a me, messi da parte per essere poi proposti e riassaporati al momento giusto. Questo è il caso del Montonico.
Il vitigno
Il vitigno Montonico è caratterizzato da notevole vigoria. Riesce ad adattarsi bene a diversi tipi di terreni e resiste bene alla siccità ed al calcare. La foglia è grande, pentagonale e pentalobata, il grappolo grosso e serrato, l’acino è grosso e rotondo; la buccia è spessa e di colore giallo verdognolo ed assume tonalità ambrate a maturazione avanzata; appena pronto, il vino che se ne ottiene, si presenta aspro e necessita di maturare in cantina diventando così un prodotto asciutto e vigoroso. È un bianco cha ha assolutamente bisogno della sua prigione, la bottiglia, per evolvere al meglio. Veste il bicchiere di giallo paglierino con riflessi verdolini che ne lasciano intuire tutta la sua freschezza. Al naso presenta note di frutta a polpa bianca sovrastate da sentori erbacei, di fieno fresco, da giovane che diventa secco nel tempo. In bocca si mostra snello, asciutto, spiccatamente fresco e poco persistente con finale chiaramente ammandorlato, poco alcolico.
Areale di coltivazione e storia
Oggi lo ritroviamo coltivato a macchia di leopardo e concentrato nella zona di Bisenti e Poggio delle Rose, suo areale di elezione. Non è stato sempre così però, infatti era estremamente diffuso fin dall’inizio del Novecento in tutto il territorio abruzzese e più in generale nel centro-sud Italia.
Se ne hanno notizie certe sin dal 1615, anno in cui il Catasto Onciario testimonia la presenza nel territorio teramano di Bisenti di un vitigno con questo nome. Già le sue denominazioni più frequenti come Racciapolone, Racciapaluta (chietino) o Ciapparone (un po’ in tutto l’Abruzzo) ci restituiscono l’immagine di un grappolo abbondante, generoso. È proprio questa notevole produttività, soprattutto legata a sistemi di allevamento a tutore vivo, alberata, ma che rimaneva quasi invariata anche in pianura che ne spinse l’espansione dall’Abruzzo alle regioni limitrofe. Lo ritroviamo nelle Marche con il nome Fermana bianca o Firmano.
Era facile incontrarlo sia a Pesaro e che a Roma con le denominazioni Marzabina, Chiapparone Caprone, Ciapparuto, Rappenolo. L’uva prodotta non veniva utilizzata solo per la vinificazione ma veniva esportata come uva da tavola e grazie alla sua conservabilità fungeva da riserva alimentare durante il periodo invernale.
Oggi Slow Food tutela il Montonico elegendolo a suo presidio. Alcuni – pochi ormai – possono ricordare ancora che nei primi del Novecento dalla stazione ferroviaria Montepagano-Rosburgo oggi Roseto degli Abruzzi, partivano vagoni colmi di cassette di Montonico con destinazione nord Italia e soprattutto Germania dove era conosciuta come “Goldhivauben” ossia uva d’oro. Pensate che nei pressi dello scalo ferroviario esisteva una fabbrica per la sola produzione di cassette per la raccolta e la spedizione di questo prezioso frutto.
In un certo senso la sua diffusione fu la sua sfortuna. In un’ottica di massimizzazione della produzione non si seppero difendere le sue potenzialità e sfruttarle al meglio. Fu così che intorno al Montonico si levarono spesso critiche negative, legate appunto alla sua elevata produzione, dalla quale conseguivano successivamente prodotti anonimi e mediocri. Scrivevano Sabatini e Di Francesco nel 1879, descrivendo le realtà viticole nel Teramano: “Il Montonico è un altro vitigno che abbonda, specialmente nelle pianure…Si vorrebbe sempre più estendere per l’abbondanza del prodotto, ma da poco in qua dai più intelligenti si raccomanda giudiziosamente l’esclusione assoluta. Questo vitigno per la sua speciale conformazione del grappolo, avente gli asinelli stretti e serrati gli uni sugli altri, produce mosto insipido, poverissimo di zucchero e ricco di acidità. Per farne vino durevole, o bisogna ricorrere alla cottura, come molti fanno, oppure mescolarlo ad altre uve di migliore qualità”. Da qui, l’azione combinata di fillossera e nuovi sistemi di allevamento fecero preferire l’impianto di Montepulciano e Trebbiano al suo posto.
La rinascita del Montonico
Proprio da Bisenti e dal suo circondario è partita la sua riscoperta. In questa che è la zona di elezione per eccellenza del Montonico non ne hanno mai abbandonato la coltivazione.
Dapprima per autoconsumo, le uve venivano raccolte e vinificate dalla costituita cooperativa Amimont, anche se il vino prodotto bastava a malapena a soddisfare la mescita per l’annuale Festa dell’uva e del vino Montonico, arrivata nel 2020 alla 45° edizione. Successivamente la cooperativa cambiò il suo nome diventando Vinicola del Montonico che produceva un vino tranquillo ed uno spumante, vinificando le uve prodotte tra Bisenti e Cermignano.
Oggi è la passione, la sensibilità e la caparbietà di pochi produttori a consentire il passaggio di questo prezioso testimone di biodiversità lanciando sul mercato etichette dedicate a tale vitigno. Il futuro di questa uva sembra affidata nelle mani di quei giovani artigiani della vite che stanno provando la via della spumantizzazione. Chi attraverso il metodo charmat, chi attraverso il metodo classico, cercano di valorizzare le caratteristiche proprie del Montonico: spiccata acidità, corpo snello e bassa alcolicità che sembrano essere gli assi nella manica per approdare su un mercato sempre più bramoso di spumanti.
Se questa deve essere la via del riscatto per il Montonico che ben venga, mai momento fu più ideale.
Articolo originariamente apparso sulla Rivista “Il Sommelier”. Su gentile concessione dell’Autore, Giuseppe Ialonardi
Foto di Massimiliano Perelli