A cura del Sommelier Giuseppe Ialonardi, Delegato FISAR Teramo
“[…] Noi ti offriamo, o Signore, il calice della salvezza e confidiamo, per la tua bontà […] Vieni, Santificatore, Dio onnipotente ed eterno e benedici questo sacrificio preparato a lode del tuo santo nome.” Attraverso queste parole pronunciate dall’officiante il vino si trasforma nel sangue del Salvatore. È la “transustanziazione”: la totale conversione della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Termine creato dalla teologia medievale di cui la prima documentazione ufficiale si ha nel Concilio lateranense del 1215. Nel Vangelo secondo Matteo (26,27-28) si leggono le parole di Gesù durante l’ultima cena: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati”. Ancora San Tommaso scrive: “Un dogma è dato ai cristiani: il pane si trasforma in carne e il vino in sangue”.
Sin qui tutto bene ma quale vino si trasforma nel sangue di Cristo? Cosa differenzia il vino da messa dagli altri? Quello del vino usato durante l’eucarestia è un settore molto peculiare dell’enologia di cui si parla poco e costituisce una precisa e redditizia nicchia. Se i vini comuni sono subordinati soprattutto alle esigenze del mercato, rispettando disciplinari di produzione precisi, i vini da messa fanno riferimento ai parametri imposti dal Codice di diritto canonico.
“§3. Vinum debet esse naturale de genimine vitis et non corruptum.”. Inizierei da qui per cecare di rispondere a questi interrogativi. Il canone 924 del codice del diritto canonico paragrafo 3 del Codice Pio-benedettino, pubblicato da papa Benedetto XV nel 1917 e rimasto invariato nel Codice di diritto canonico promulgato nel 1983 da papa Giovanni Paolo II, dispone che per le celebrazioni liturgiche “Il vino deve essere naturale, del frutto della vite e non alterato.” Dettame rivolto tanto ai sacerdoti nella scelta del vino da utilizzare quanto a coloro che si accingessero a produrlo. A questo articolo del diritto canonico va affiancata, per avere un quadro più chiaro e preciso del vino da messa, l’Istruzione “Redemptionis Sacramentum” (capitolo III, paragrafo 50): “Il vino utilizzato nella celebrazione del santo sacrificio eucaristico deve essere naturale, del frutto della vite, genuino, non alterato, né commisto a sostanze estranee. Nella stessa celebrazione della Messa va mescolata ad esso una modica quantità di acqua. […] È assolutamente vietato usare del vino, sulla cui genuinità e provenienza ci sia dubbio: la Chiesa esige, infatti, certezza rispetto alle condizioni necessarie per la validità dei sacramenti. Non si ammetta, poi, nessun pretesto a favore di altre bevande di qualsiasi genere, che non costituiscono materia valida.” L’unica aggiunta permessa verso la fine della fermentazione è l’alcol di vino, con lo scopo di aumentarne la conservabilità del prodotto che comunque non può superare i 18 gradi alcolici. L’utilizzo durante l’eucarestia di un prodotto non idoneo porterebbe all’invalidità stessa della messa.
Non ci sono indicazioni particolari sul tipo di vino o sul suo colore. Se fino al 1880 si utilizzava esclusivamente il rosso, a simboleggiare il sangue di Cristo, oggi è più frequente trovare il bianco per motivi pratici, in particolare per evitare macchie sulle tovaglie di lino dell’altare o sui paramenti. Generalmente vengono utilizzati vini liquorosi come il Vin Santo ed ultimamente anche vini secchi. La produzione di vino da messa è assolutamente variegata. Generalmente affidata a monasteri e conventi, istituzioni religiose, come il Monastero “del Moscato” di Santo Stefano in Balbo in Piemonte, il Convento dei Frati Francescani di Mezzolombardo, in Trentino, dove si fa del Teroldego da Eucarestia, l’Abbazia di Praglia in Veneto, l’Abbazia di Novacella in Alto Adige, il Convento di Santa Chiara di Montefalco in Umbria, il Convento dei Carmelitani Scalzi a Venezia o il Convento francese del Sacro Cuore a piazza di Spagna a Roma. Non sono solo le istituzioni religiose a produrre vino da messa. Anche i laici possono, ottenendo un’apposita autorizzazione alla produzione e commercializzazione rilasciata dall’Ufficio liturgico della diocesi di competenza territoriale che garantisce, attraverso determinate analisi chimiche, la corrispondenza alle prescrizioni del diritto Canonico, autorizzazione che si rinnova ogni due anni. Tra i privati dominano tradizionalmente i siciliani che producono vino da messa liquorosi da uve Zibibbo, Catarratto, Grecanico, Grillo, Inzolia, Nero d’Avola, Nerello Mascalese, per produrre sia bianco (secco e dolce), sia rosso (dolce). Non mancano esperienze di assoluta qualità come il Vino Cotto abruzzese, nel teramano, dove si utilizzano uve Montepulciano in purezza che tradizionalmente veniva servito a fine pasto, insieme a una brocca di acqua purissima, in segno di rispetto e ospitalità e di cui, già nel ‘500, Sante Lancerio ne esaltava le qualità elevandolo alla dignità del rito sacrificale della messa.
Curiosità: se al termine della distribuzione della Comunione rimane un po’ di vino nel calice, deve essere bevuto dal sacerdote o da un altro ministro; chi getta il vino consacrato è scomunicato; se il vino consacrato cade si lava il luogo con acqua “e l’acqua si versi nel sacrario che si trova in sacrestia”.